Autore Topic: Figli dell'ultima alba XXXIII - Capitolo 24: Tenebre per sempre  (Letto 1019 volte)

Sceiren

  • GM Rising Dradis Echoes
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  • Chi sono dei due? :D
    • Mai dire di no al panda!
24
Tenebre per sempre

Echeggiavano, moltiplicate da eco lontane, come rintocchi di una magica campana di cristallo, invisibile, non individuabile.  Lungo il cunicolo della fredda galleria, le goccioline si addensavano sulle punte delle stalattiti per cadere al suolo, incontrando altre pozzanghere e disperdendosi in esse.  Un paio di topi di campagna stavano rosicchiando la fibbia accuratamente avvolta sopra un vecchio paio di pantaloni pesanti, anch’essi ordinatamente sistemati su uno sgabello.  Poco oltre, le pietre in cerchio intorno ai resti di un fuoco che aveva arso molto tempo prima, mesi forse.
Tra le stalattiti, alcuni pipistrelli si stavano sgranchendo, distendendo le alucce e pulendosi il muso con l’uno sul corpo dell’altro.  Era quasi l’ora e la caccia stava per iniziare.
Fuori dalla grotta, un venticello appena accennato, ma non per questo meno freddo delle tempeste di neve che, quasi quotidianamente, si abbattevano nella zona.
Dopo l’ennesimo sbadiglio, il primo pipistrello si lasciò andare e spiccò il volo, lasciando la grotta e dandosi alla notte, subito seguito dal secondo.   Uno dei due topi smise di mangiucchiare, drizzò il capo e, sicuro che non vi fosse nulla di cui preoccuparsi, riprese il suo spuntino, ma solo per poco: entrambi i roditori si pietrificarono.  Si voltarono un paio di volte spaventati, quindi, valutato che non valeva la pena rischiare, squittendo scomparvero in una piccola fessura nella roccia, rimandando il resto del pasto solo dopo aver valutato la minaccia.
L’aria tra i resti del fuoco e lo sgabello sfrigolò, distorcendo le immagini, come filtrate attraverso la superficie di uno stagno.  Improvvisamente, un’ovale di luce azzurrina si allargò, delineandosi e stabilizzandosi in un portale.  Una figura ne uscì goffamente, rotolando al suolo e mandando in frantumi lo sgabello, prima di stramazzare al suolo tossendo.  Subito dopo, una seconda più minuta, fece lo stesso, rotolando e finendo contro la precedente, prima di trascinarsi poco più in là, in preda a spasmi di tosse e vomito.
Il gigante biondo, trattenne il fiato, cercando di riprendere il controllo, ma venne nuovamente raggiunto da una nausea incontenibile che sfociò in tosse e vomito, sputò e si accorse che vi erano chiazze di sangue, assieme a tutto il resto.
- Oh, mio Creatore,.. cosa hai fatto. – biascicò portandosi schiena alla roccia ed appoggiando la testa con gli occhi chiusi.  Il petto si alzava ed abbassava violentemente, ciò nonostante si sentiva privo di ossigeno.
- … salvato… - riuscì a rispondere la gnoma, che non aveva smesso di tossire e rotolarsi a terra.
Il biondo paladino si passò tolse i guanti e li lasciò cadere al suolo, quindi si passò una mano tra i capelli e continuò.
- Perché, perché lo hai fatto? –
La gnoma tossì ancora, quindi cercò frenetica nello zaino che non lasciava mai una borraccia e dette una sorsata avida, prima di vomitare nuovamente tutto.
- …meglio ora… - biascicò.
Shockwave si passò la mano sulla bocca, per poi lasciarla cadere lungo il fianco.
- Non ti ho chiesto di portarmi via come un codardo, il mio posto era lì! – disse con maggiore sicurezza, alzando il tono della voce.
Seilune non rispose subito.  Sentiva l’ennesimo conato.  Trattenne il fiato, chiuse gli occhi e si allentò la fascia sulla testa, quindi un po’ più certa della situazione, si mise a sua volta a sedere, abbandonandosi in avanti come un neonato che sperimentava la cosa per la prima volta.  Ondeggiò a destra e sinistra. Il mondo le girava.
- Non avresti aiutato nessuno, io credo. –
- Come puoi dirlo! Hai forse il dono del Creatore di vedere il mio futuro? –
La gnoma si accarezzò la veste con le manine paffute, quindi fissando il suo sgabelli a pezzi sotto il peso del paladino aggiunse asciutta:
- L’unico futuro che ho visto è questo presente. –
Shockwave balzò in piedi per appoggiarsi con entrambe le mani alla parete.  Un capogiro lo aveva quasi riportato faccia a terra.
Quindi, voltandosi, stretto il pugno ed alzato al cielo urlò:
- Quale futuro?! Ho abbandonato i miei superiori e coloro che contavano su di me! Ho deluso loro ed ho deluso il Creatore! E questo grazie a te! – aggiunse minaccioso.
La gnoma alzò il viso provato al suo compagno e, non senza fatica, si mise in piedi.
- Non dicevi di voler servire il Creatore? Credevo dicessi così. –
- Lo dico infatti! –
- Ora potrai farlo… di nuovo. – e cadde a sedere. 
Shockwave stava per aggiungere qualcosa, quindi si sentì sfinito ed impotente, nonché privo di forze.  Abbassò il pugno e fissò la piccola creatura ai suoi piedi.
Aprì la bocca per parlare, ma la richiuse e invece si avvicinò barcollante all’uscita della grotta. 
- Cosa pensi sarà successo, all’Iracancello, maga? –
La gnoma assaggiò nuovamente la borraccia, quindi inspirò rumorosamente.
- Nulla di buono. –
- C’è una colonna di fumo che si alza ad oriente. – cambiò discorso il paladino. Non voleva andare avanti con quella discussione. 
La gnoma si avvicinò, per aggrapparsi alla sua gamba per non cadere.  Quindi mosse le mani e lentamente iniziò a levitare fino a raggiungere l’altezza del compagno di viaggio.
- Scommetto che staranno esultando adesso. – disse triste.
- Esultando?! –
- Di là c’era Naxxramas. Ora credo non ci sia più. – tagliò corto.
- Una vittoria quindi! – rispose baldanzoso il paladino.
- Lo sarebbe stato… non festeggeranno più quando arriverà la notizia su quanto accaduto di qua. –
Il paladino fissò la coltre di fumo, quindi serio guardò negli occhi la maga del gelo.
- E’ lontano? –
- E a che serve? –  rispose lei.
- E’ lontano? – ripetè il paladino.
- Perché?! La guerra è finita, non lo capisci? –
Shockwave afferrò le spalle della maga quindi sorrise per la prima volta, da quando erano arrivati.
- Amica mia, mi hai salvato per permettermi di continuare a servire il Creatore.  Permettimi di continuarlo a fare. Se, come dici, è davvero finita, allora non voglio restare a morire tra i ghiacci, ma voglio vendicare i morti sul campo morendo a mia volta con onore!  E sono certo che anche tu sei stanca di lasciare che gli eventi scorrano intorno a te e basta.  Oltre quelle colline hanno bisogno di noi, mentre da dove siamo venuti, purtroppo, non resta che morte, l’ho capito adesso.  Grazie per avermi salvato, ma grazie soprattutto per quanto farai ora.  Accompagnami là e vieni con me. –
Seilune tornò letteralmente coi piedi per terra, quindi si avvicinò al falò e smosse i sassi, afferrò il sacchetto nascosto nel letto del fuoco e ne estrasse una pietra ovale con una strana runa incisa sopra.
- Pietra del cuore? Ecco come siamo arrivati qui. –
- Cuor di pietra, la chiamiamo qui. – disse riponendola in tasca.
- E’ lo stesso. –
- Se proprio dobbiamo partire, la voglio sistemare in un posto, lungo la strada. Non si sa mai. –

* * *

Quando la eco scatenata dalla caduta di Naxxramas si quietò e la polvere e terra sollevata dallo schianto si depositò su vivi, morti e morenti, non fu il silenzio, come di solito invece accade dopo un rombo di tuono tanto fragoroso, ma furono i lamenti.  Era come se fino a poco prima non vi fossero soldati feriti a terra e che adesso, vinto il nemico, le ferite non fossero tenuto oltre al guinzaglio dall’adrenalina e vincessero coloro che affliggevano da tempo.
Il cielo era scuro e le tenebre erano squarciate qua e là dai primi falò che le truppe alleate avevano iniziato ad accendere più o meno dappertutto, per far luce, per fare calore, per bruciare i corpi.
Non vi fu esultanza quella notte, niente canzoni sul campo da battaglia, niente danze, solo lavoro, solo morte.
I Vyrkul rimasti in piedi si erano dati alla fuga, ove non raggiunti dalle frecce degli arcieri o dagli incantesimi degli incantatori, mentre i non-morti erano tornati alla terra, finalmente immobili.
I sacerdoti e i paladini, comunque, benedicevano il suolo palmo a palmo: non si poteva mai sapere quali fossero effettivamente sconfitti e quali, invece, fossero semplicemente assopiti.
I falò eretti dai soldati venivano tristemente alimentati dai resti delle abitazioni fatte a pezzi durante lo scontro, così come dai mezzi di assedio non più riparabili, ma soprattutto dai corpi straziati dei viventi che non ce l’avevano fatta, mentre tutto intorno alla cittadella caduta, decine di fuochi delimitavano i lavori di ricerca di eventuali sopravvissuti, miracolosamente scampati alla frana di roccia caduta dal cielo.  Si stimava che un centinaio di combattenti fossero stati travolti al momento dello schianto ed ogni minuto che passava, la probabilità di trovare qualcuno vivo, se non ai margini del cratere, diminuivano vertiginosamente.
Le truppe di prima linea, non impegnate nelle operazioni di pulizia del campo, un termine agghiacciante con cui gli ufficiali definivano le attività successive allo scontro,  erano rientrate a Guadiainverno in cerca di ristoro, del resto, si erano guadagnati una bevuta come minimo, ma molti, nonostante la stanchezza, avevano scelto di restare sul campo, nonostante il gelo, nonostante la stanchezza.
Ilaria non aveva potuto tornare alla cittadina, non poteva, aveva bisogno di tempo per elaborare quanto accaduto, ma soprattutto, per dar seguito alla sua chiamata: aveva benedetto assieme alla paladina il corpo dello gnomo ucciso dal diavolo che avevano affrontato e che era, tra le altre cose, riuscito a scappare.  Aveva assistito inerme a quanto era accaduto e non aveva potuto far altro che dare l’estremo saluto all’apprendista di Erebus.  L’evocatore, dal canto suo, non aveva tradito alcuna emozione: aveva chiesto a Gengiskhan di prendere il corpo del caduto in braccio e di riportarlo a Guardiainverno per seppellirlo in una cimitero consacrato.  Richiesta poco consona per un evocatore, aveva pensato, ma aveva apprezzato che Erebus volesse dare allo gnomo una sepoltura nella luce del Creatore. 
Whitescar era stata portata all’ospedale da campo allestito fuori dalla cittadina.  La paladina era scortata oltre che alcuni novizi, anche da alcuni veterani.   
La sacerdotessa ricacciò il nodo alla gola e si concentrò sul soldato agonizzante che aveva raggiunto.   
- Shhhh. – lo tranquillizzò con un sorriso caldo come il sole.
- Aiutami! – singhiozzò il soldato, mentre di premeva con le mani il basso ventre.  Ilaria appoggiò le mani sulle sue, scostandole appena per valutare la ferita.  Era stato aperto da un fendente preciso e letale.  Parte delle viscere erano uscite e nonostante l’uomo cercasse di trattenerle, continuavano a sgusciare via, come nere anguille.   Gli occhi della sacerdotessa le si riempirono di lacrime, ma le ricacciò.
- Ora allevierò il dolore, poi ti guarirò. – mentì.
Impose le mani e lo benedisse, pregando il Creatore di darle la forza di cicatrizzare quella spaventosa ferita, ma se il Creatore poteva tutto, forse le sue preghiere non erano abbastanza per quel taglio.   L’uomo spalancò gli occhi, mentre una luce dorata lampeggiò su tutta la ferita, poi ebbe un sussulto, spalancò la bocca e esalò l’ultimo respiro.
Il suo cuore non aveva retto.
Ilaria si asciugò col braccio le lacrime, quindi benedisse il cadavere ai suoi piedi e riprese a camminare.
Per ogni uomo, elfo o orco che riusciva a strappare alla morte, almeno una dozzina le morivano di fronte: chi chiedendo il perdono, chi maledicendo il Creatore e tutti gli dei, chi in silenzio, chi urlando, ma la morte arrivava comunque per tutti.
La sacerdotessa, sempre più esausta e prossima a crollare a sua volta a terra, però, non si dava mai per vinta.  Continuava a muoversi tra i resti fumanti di catapulte ormai ridotte a brandelli, tra i corpi, tra i resti, le rovine, gli stendardi, la neve e la roccia come un angelica presenza benefattrice, pronta a alleviare le sofferenze del moribondo che cercava ogni volta, ogni singola volta, di strappare dalle braccia della morte.
La sacerdotessa si avvicinò ad uno dei falò dove un gruppo di uomini arrostiva della carne.  Con gli occhi pesti per la fatica, chiese asilo per un po’, doveva riprendersi. I dodici uomini, tutti vestiti con scuri abiti larghi, tutt’altro che pesanti, nonostante il freddo, erano intenti a arrostire delle lepri, evidentemente cacciate da poco.   Gli uomini acconsentirono senza proferir parola.  Ilaria si avvicinò al fuoco, distendendo le mani tremanti.  Si accorse solo fermandosi quanto fosse stanca.
- Hai fame, sorella? – chiese con voce profonda un guerriero alla sua destra, senza alzare gli occhi dal fuoco e gettando una tavola di legno sulle fiamme.  Una pioggia di scintille esplose verso l’alto, per confondersi tra fumo e fiamma.
- No, grazie, fratello. – Ilaria fissò i tratti affilati dell’uomo che le aveva rivolto l’offerta e azzardò:
- Siete soldati del nord? Vero? –
L’uomo di fianco al primo che aveva rivolto la parola ad Ilaria ebbe un sussulto, quindi afferrò un piccolo ciocco di legno e se lo passò da una mano all’altra.  Quindi voltandosi fissò Ilaria che, distrattamente, si stava accarezzando la treccia bionda.
- Può darsi. –
Ilaria fissò con un sorriso disarmante il suo interlocutore e, rimettendosi in piedi, non senza fatica, aggiunse decisa:
- Grazie, fratelli miei, per aver combattuto al nostro fianco, nonostante probabilmente nessuno di voi volesse o fosse comunque accettato più dei nostri nemici di un tempo, ma ricordate che di fronte al Creatore siamo tutti fratelli e sorelle, al di là di quello che potrebbe dire e pensare il mortale che vi comanda. –
L’uomo ascoltò le parole della sacerdotessa, quindi gettò il ciocco nel fuoco e tra le scintille si alzò a sua volta stiracchiandosi, seguito dagli sguardi tutt’altro che amichevoli degli altri partecipanti al banchetto.
- Sorella, lascia che ti dica una cosa: se io e i miei fratelli di sangue siamo qui è solo per nostra scelta. Nessuno ci comanda, nessuno ci dice cosa fare. Noi, come gli altri come noi, siamo stati richiesti perché adatti allo scopo, ma abbiamo accettato non perché una unica grande famiglia o perché speriamo nella redenzione del vostro Creatore, ma solo perché la minaccia al di là del mare avrebbe raggiunto per prima la nostra città. – Incrociò le braccia sul petto, quindi chinò il capo per poi tornare a torreggiare su Ilaria che non arretrava di un passo.
- Una cosa però è vera, sorella: siamo sicuramente meno amati degli orchi che ora vi portate guancia a guancia in questa campagna, ciò nondimeno poco ci importa quello che la gente-oltre-il-muro pensi di noi.   Rinnovo l’invito, sorella, vuoi partecipare alla cena o stai andando via? –
C’era una punta di minaccia nella domanda, ma Ilaria sapeva bene cosa fossero e sapeva altrettanto bene di quanto soffrissero. Non l’avrebbero toccata, lo sentiva, così non fu per timore di quelle creature che declinò.  Non aveva tempo per dividere la cena con gente di Gilneas, non in quella occasione; si era rinfrancata, almeno un po’, e ora doveva riprendere la sua missione.  Ogni minuto che passava, i feriti si aggravavano.   Così ringraziò, li benedì, tra il disgusto di alcuni e l’incuranza di altri, e riprese la via e fu poco dopo la sua sosta che riconobbe una sua consorella, scortata da un paladino e seguita da un altro sacerdote, che proprio come lei, vagava per la distesa dei Campi Morti.
Ilaria si chiese se fosse il momento migliore per avvicinarsi a Clarisian, poi, guardandosi intorno, realizzò che non vi era momento migliore di quello.  Avrebbe portato l’amore del Creatore al fianco di una sorella della fede, senza contare che non aveva idea di quanto avrebbe retto ancora e la presenza di una scorta la tranquillizzava.  Avrebbe potuto spingere se stessa oltre i propri stessi limiti perché, al peggio, avrebbe avuto qualcuno a sorreggerla.
- Sorella Clarisian. – iniziò educatamente Ilaria. 
La paladina si frappose subito tra i due sacerdoti e Ilaria, distendendo la destra sul fianco, pronta ad afferrare la spada.
- Non sono un nemico, sorella. – disse pacata Ilaria avvicinandosi.
- Lasciala venire, Shira, è una sorella come me, in questa distesa di rassegnazione, non possiamo lasciarla indietro.  Vieni sorella Ilaria, vuoi dell’acqua? Una coperta? – i modi gentili di Clarisian strapparono un sorriso a Ilaria, nonostante la situazione. La sacerdotessa si allisciò il vestito con le mani, chinando il capo in segno di ringraziamento, così si accorse che Clarisian era scalza.  I suoi piedi viola, lividi, mezzi congelati.
Alzò gli occhi evidentemente preoccupata ed incrociò lo sguardo sereno della consorella.
- Hai bisogno di cure! Perderai i piedi!, disse senza mezzi termini, lascia che ti aiuti! –
Clarisian scosse il capo mestamente, quindi aggiunse che andava bene così.
Le due, seguite da Gaius e Shira, ripresero a camminare.  Un gruppo di cadaveri, uno sull’altro, poi i resti di alcuni scheletri guerrieri che Shira, cautelativamente, frantumò comunque con la sua spada, prima di benedire il terreno intorno a loro.
- Dimmi, sorella Ilaria, quanti uomini hai salvato quest’oggi? – chiese all’improvviso Clarisian sorridendo.
Ilaria si accarezzò la treccia e risoluta e impassibile come sapeva essere durante gli incontri formali rispose: - Troppo pochi. – Clarisian annuì.
- Precisamente. –
Aggirata le rovine di un mulino, trovarono sotto una pesante ruota di metallo di un mezzo d’assedio due soldati.  Entrambi sotto alla giubba con le effigi del consiglio avevano armature di Stormwind.
Uno dei due non si muoveva, l’altro gemeva. 
- Shira! – disse Clarisian.
La paladina, seguita da Gaius, si avvicinò alla ruota e la sollevò quel tanto che bastò alle due sacerdotesse di trascinare via i due uomini, prima uno e poi l’altro.
Ilaria pregò il Creatore e benedisse quello immobile, ma nulla accadde.  Ne sentì il respiro, ma non ve ne era traccia, così come il polso.
Clarisian, invece, accarezzò il volto del secondo.  Gemeva, si guardava intorno senza comprendere dove fosse o chi avesse vicino.  Tremava.
- Fratello mio, il Creatore è qui al tuo fianco adesso. Non temere: quanto stai soffrendo ti renderà mille volte tanto, quando ti inginocchierai a Lui.  Figlio del Creatore.  – e lo accarezzò ancora.
Ilaria si alzò e si avvicinò alla consorella.
Shira scosse il capo, quindi Gaius aggiunse:
- Ha la schiena spezzata e il Creatore solo sa quanto altro… non ce la farà. –
- In due però possiamo aiutarlo, poi potremmo portarlo all’ospedale mobile e da lì, stabilizzato, forse addirittura rientrare a casa. – disse Ilaria, mentre consultava il suo breviario.  Quindi lo sentì spirare. Improvvisamente.
Clarisian aveva un triste sorriso: la mano sinistra accarezzava la guancia del soldato, mentre la destra era salda sui suoi occhi.
Quindi si voltò verso Ilaria, incrociandone lo sguardo e Ilaria capì.
Un’espressione di cupo orrore le si disegnò sul viso e la bocca le si aprì come per parlare, ma le parole erano come congelate in gola.
Il breviario le cadde dalla mano tremante.
- Cosa hai fatto? – chiese.
Clarisian si rimise in piedi e sorridendo annuì.
- Cosa hai fatto?! – urlò Ilaria avvicinandosi a Clarisian minacciosa.  Shira e Gaius si avvicinarono per intervenire, ma la loro mentore fece cenno di fermarsi.  Poi Ilaria le fu addosso e le due sacerdotesse caddero nella neve.
- Come hai potuto! Come hai potuto! Dovevamo proteggerlo, potevamo salvarlo! – urlava tra le lacrime Ilaria, ma la consorella non rispondeva.  Si rimise in piedi e porse la mano a Ilaria che, incredula avrebbe voluto colpirla.
- Tu sei una sacerdotessa della luce! – urlò.
- Vero. –
- Sei una figlia del Creatore, una sua ancella! Come hai potuto?! – gridò riprendendo in parte il controllo.
Clarisian chiuse gli occhi e lasciò che fiocchi di neve le raggiungessero le guance bianche.
- Ti ripropongo lo stesso quesito che ti ho posto quando ci siamo incontrate:  dimmi, sorella Ilaria, quanti uomini hai salvato quest’oggi? –
Ilaria rispose tra i denti: - Meno di quanti avrei potuto. –
- No, sorella, meno di quanti avresti voluto.  Credi forse che avremmo potuto salvare un uomo con la spina dorsale spezzata? Credi forse che le nostre preghiere avrebbero posto fine al suo dolore o saldato la sua schiena? Credi forse che volendo salvarlo, lo avresti salvato realmente? Ed anche se avessi fermato l’emorragia e alleviato il suo dolore, anche se lo avessimo portato indietro, credi in cuor tuo che avrebbe superato l’inverno? Ed anche se fosse, pensi in cuor tuo che avrebbe ripreso mai a camminare? Avremmo prolungato la sua sofferenza per un minuto, un’ora, un mese o un anno, ma comunque il dolore non lo avremmo placato, ma diluito… -
Ilaria trattenne il respiro e si obbligò a calmarsi, almeno quanto bastasse per rispondere in modo più misurato e ragionato.
- La nostra missione sulla terra è dare conforto a chi lo chiede. –
- La nostra missione?!, per la prima volta la schernì Clarisian, La nostra missione dovrebbe essere seguire il Creatore, non fare quanto occorre al nostro ego mortale per affrontare una nuova giornata di sconfitte con un barlume di autoprocurata gratificazione data dall’aver fasciato una ferita che poi si infetterà comunque! La nostra missione, sorella, è obbedire al Creatore e usare la Sua forza per impedire che la sciagura si scateni sui suoi figli! Vogliamo parlare della missione che abbiamo fallito, sorella?! Vogliamo parlare del perché siamo tutti qui e questo fratello è morto, disse indicando il soldato che Ilaria non era riuscita a recuperare, mentre questo altro era agonizzante e lo sarebbe stato tra poco? –
- Non dubito che la nostra vista sia stata poco acuta, ma la piaga, le vittime, il viaggio e questa stessa battaglia fanno comunque parte del Suo progetto per noi.  La sua imperscrutabile visione ci ha portato in queste terre ghiacciate e, nel suo progetto, forse, vi era in questo soldato una prova di resistenza per aspettare la sua mano, noi Clarisian!, noi!!, e per noi, invece? Una prova di fede che tu hai scelto di ignorare e di non affrontare, troncando la vita di questo fratello, senza combattere! –
La sacerdotessa fissò con due occhi fiammeggianti la consorella.
- Imperscrutabile, dici? Il progetto del Creatore imperscrutabile? E’ chiarissimo nella sua semplicità, solo che tu, voi, siete così occupate dal cercarne significati reconditi e nascosti da non coglierne l’essenza! La missione di fede a cui ti riferisci non è far soffrire un giorno di più il moribondo, ma impedire che questo carro si schiantasse contro di lui! Che questa sanguinosa battaglia si consumasse su questo suolo, che queste navi partissero e che, in definitiva, che questa piaga si manifestasse! Avremmo dovuto vederlo arrivare e invece così non è stato.  E lo sai perché, sorella? Lo vuoi sapere davvero perché? Perché non eravamo degni di Lui! Nessuno! Tu, io, lui! Nessuno! E ora mi vieni a dire che la missione di questo poveretto era quella di restare schiacciato affinchè potesse resistere fino al nostro arrivo e per cosa, poi?: venire salvato da noi o da qualche altra guaritrice? Questo mi stai dicendo?! –
- Quello che sto dicendo è che ti stai trincerando dietro ad un evidente fallimento della Chiesa, certo, per non vedere, per non affrontare quanto ti circonda qui.  Sei stata mandata sul campo da battaglia dall’Arcivescovo Benedictus per indirizzare questo esercito, ma quello che stai facendo non è né quanto richiesto dal tuo superiore né quanto voluto dal Creatore, Clarisian.  Non sei pronta per affrontare il dolore… -
- Cosa ne sai tu del dolore, sibilò furente, Cosa? Vuoi sapere cosa ne so io del dolore?! Credi che non sappia di cosa parli? Sei tu che non sai cosa sia il dolore! ECCO COSA E’ IL DOLORE! – urlò, poi afferrata con una mano la veste leggera se la strappò via mostrando un corpo violaceo per il freddo, percorso da decine e decine di cicatrici, alcune fresche, ancora sanguinanti, altre chiare, lontane nel tempo.  Era martoriata.
- Tu, sorella, credi che portare sollievo ad un corpo massacrato, fatto a pezzi e irriconoscibile sia quello che il Creatore ti chiede? Credi forse che suturare una ferita quando ve ne sono aperte a decine sia quello per cui sei sacerdotessa e che sia sufficiente? E allora dimmi, Ilaria, e allargò le braccia, lasciando cadere la veste al suolo e mostrando il suo corpo devastato dalle ferite completamente nudo e sempre più prossimo al congelamento, dimmi!, cosa puoi per curare questa sorella!? Pensi forse che rimarginare qualche cicatrice possa darti la pace? O darla a me? EH?! Pensi che coprirmi dal freddo mi impedirebbe di sentirne la morsa? Pensi che i miei piedi torneranno mai come prima di iniziare questa battaglia o che i miei occhi potranno mai cancellare dalla mente le immagini di morte e orrore di cui sono stati testimoni? Curami! Sorella, poiché questa è la tua missione, fallo! –
Ilaria lasciò correre i suoi occhi carichi di lacrime sul lungo collo di Clarisian, sulle sue spalle, sul suo petto, sui fianchi fino ai suoi piedi.  Ne seguì le numerose cicatrici, lividi, squarci, fino ai piedi così rovinati.  Shira fissava le due donne pronta ad intervenire, con uno sguardo durissimo, che mal si addiceva ai suoi lineamenti gentili, mentre Gaius aveva distolto il proprio, non potendo guardare quello spettacolo che immaginava, ma che per la prima volta aveva potuto vedere.
Ilaria si chinò in ginocchio senza dire nulla e impose le mani sui piedi della consorella, quindi un bagliore color del miele li avvolse, proteggendoli dal freddo e allontanando gli effetti del congelamento.  Quindi si alzò, si tolse il mantello e coprì Clarisian, rimasta immobile di fronte a lei.
- Sorella mia, hai ragione: non conosco il dolore come puoi conoscerlo tu e, sì, hai ragione quando dici che se potessi ti impedirei di provare quanto hai provato, impedirei alle ferite di aprirsi, alle malattie di colpire o alle ossa di rompersi; ma non è nelle nostre capacità vedere così lontano, sorella mia, non è di questo mondo leggere il male prima che si verifichi, non così in profondità, almeno.  Tu cerchi il dolore per ricordare a te stessa per cosa combatti e cosa vuoi evitare al fratello che cerca il tuo aiuto ed io, Clarisian, io arrivo laddove tu ti fermi, rimediando alle ferite che tu per prima non sei riuscita ad evitare.  Siamo conseguenti. Siamo complementari.  Del resto la fede, seppur vista da diverse angolazioni, altro non è che interpretazione della stessa luce. –
Clarisian si lasciò abbracciare dalla consorella che a sua volta cercava il suo abbraccio, come quello di una madre a lungo perduta.
- Vivo nel dolore, Ilaria, perché solo così non dimentico cosa significhi provarlo. Non si può proteggere senza sapere il risultato di un fallimento... –
- Lo so, lo so. –
- … e non sai quanto Lo abbia supplicato di darmi più forza, una frazione della sua benedizione affinchè potessi immolarmi per Lui, dare tutto per Lui e privare delle sofferenze che mi infliggevo coloro che non dovevano necessariamente provarne. E mi ritrovavo col sangue tra le mani, il mio sangue, e la consapevolezza di non fare mai abbastanza. –
- So bene di cosa parli, sorella mia, è quello che ho provato anche io e ti senti sola, abbandonata, inutile, impotente. –
- Sì! Sola! – ripetè Clarisian.
- Non più, mai più. – ripetè Ilaria stringendola a sé.  Sentiva i rigonfiamenti delle numerose cicatrici sulla sua schiena e si sentì travolta dalla tristezza.
- Mai più. –
- Sorelle, torniamo indietro ora. Ci sarà tempo per servire, ora è il tempo per riprendersi però. – Gaius fece cenno alla paladina che annuendo, prese in braccio il capo del suo ordine, stremata, che travolta dalla sofferenza e dalla stanchezza, svenne poco dopo.

* * *

Lo gnomo dalla pelle scura si sistemò meglio sullo sgabello troppo alto per la sua statura, si puntellò coi piedi sul sostegno e afferrò con entrambe le mani il terzo boccale di birra.
- E davvero, Erebus, te lo dico io, non so se è peggio affrontare una minaccia così brutta o assistere a quella minaccia fatta a pezzi da due bruti… Utet e Voa davvero non li reggevo. Ora mi spiego il perché li abbia messi sul fianco, quello che non mi spiego è perché abbia messo me sul fianco con loro. –
L’evocatore trangugiò rumorosamente il contenuto ambrato del suo boccale, quindi guardò con orrore il suo riflesso distorto dal vetro e, afferrato uno fazzoletto di seta da una tasca della sua giubba, si pulì accuratamente il viso.
- Nulla di personale, mi servivi là. – tagliò corto il generale dei Templari Neri, continuando a fissare il bicchierino di whisky di fronte a sé.
Lo gnomo nero si pulì con decisi colpi la bella giubba, quindi si guardò intorno, come turbato di qualcosa non ben definita.
- Quando tutto questo sarà finito, Erebus, ti porterò in una taverna che conosco nel Netherstorm.  Fidati, qui non hanno stile… - ma Erebus era assorto in altri pensieri, lo era da quando erano arrivati e non c’era modo di distrarlo, nonostante tutti i suoi tentativi.
L’evocatore ordinò con un cenno un altro boccale, quindi si avvicinò ad Erebus, rischiando di cadere dallo sgabello.
- Senti… voglio dire… non puoi farti carico di questa casualità, lo sai questo? Voglio dire, perdonami se te lo dico, ma in guerra non puoi controllare tutto.  Hai fatto il possibile, lo sai, sì? –
Erebus afferrò il bicchierino e lo mandò giù d’un fiato per poi piantarlo sul bancone svuotato e ne chiese un altro.
- Sì, lo so questo, grazie. –
Il piccolo evocatore, sempre più scomodo su quell’alto trampolo per umani, assaggiò la birra, quindi aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma non seppe bene cosa e decise di lasciar perdere per il momento.  Non era bravo a consolare.
- Più ti guardo e più resta un mistero per me come uno gnomo possa colorarsi tanto senza restare arrostito dal sole… - quella voce così insolente e sprezzante fu per lo gnomo nero una panacea.  Saltò giù dallo sgabello versando a terra un terzo della birra rimasta, ma evitando di sporcarsi, quella sarebbe stata una vera tragedia; quindi, alzato lo sguardo all’evocatrice dalla pelle candida come la neve rispose:
- Hai visto Araton per caso, fiocco di neve? –
Albina lo guardò divertita, quindi rispose più acida del solito, prendendo posto sullo sgabello da lui occupato fino poco prima:
- Ho visto il tuo fratello cresciuto infondo alla sala, sono certo che avrete molto da condividere, sempre che riusciate a distinguervi nella penombra… un sanguefreddo, oste. – ordinò.
Se normalmente avrebbe ribattuto fino ad averla vinta, nonostante lo spessore delle offese della sua avversaria, in quella situazione non era proprio il caso di restare nell’imbarazzo, così, ringraziò con un buffo inchino, e si perse nella sala piena di combattenti intenti a festeggiare la battaglia appena conclusa.
- Bevi sempre quella brodaglia, Albina? – chiese senza distogliere lo sguardo dal bicchierino nuovamente pieno.
- Sempre. – rispose lei.
I due non dissero nulla per un po’, fino a quando l’oste non portò quanto ordinato dalla letale evocatrice.
- Ai caduti? Ti va? – disse sollevando il bicchiere.
Erebus la guardò assente, quindi sollevato un sopracciglio, annuì, prese il bicchierino e ripetè a sua volta: - Ai caduti. – quindi mandò giù assieme alla compagna.
- Che strane amicizie che hai. – lo apostrofò lei.
- Come? –
- Lo gnomo caduto nella fuliggine. Singolare a dir poco. –
Erebus appoggiò un gomito sul bancone, voltandosi verso la donna e sorrise per la prima volta da quando era entrato nella taverna.
- Singolare lui? E tu che ti confondi con la neve, invece? Per non parlare di quella “singolare” collana che sfoggi…–
- Dici questa?, e allungò il collo ancora più vistosamente, mostrando i segni delle mani di Sir Zielek lasciati quando aveva cercato di strangolarla, Non sai quanto la trovi piacevole.  Se fossi un uomo la sfoggerei come ferita di guerra, ma essendo una donna… è la mia collana… e comunque non credo sia questo l’aspetto più singolare che potevi rinfacciarmi.–
- Non ho voluto esagerare. –
- Non hai voluto essere banale, preferisco. –
- Come vuoi. – concluse Erebus, facendo cenno all’oste per un altro giro.
Albina si avvicinò all’evocatore e lo fissò con gli occhi bianco latte e continuò:
- Cosa ti prende? – sussurrò.
Erebus tornò alla sua posizione di poco prima, ma Albina lo conosceva da troppo tempo e, soprattutto, non era famosa per non ottenere quanto chiedeva, così gli sfilò il bicchiere e lo appoggiò accanto al suo, quindi gli prese il mento con le sue dita affusolate e lo obbligò a fissarla negli occhi.
- Erebus, cosa ti prende? –
L’evocatore sorrise,scansò la mano della donna e si allungò verso il bicchierino.
- Ho fallito. –
Albina ridacchiò, attirando uno sguardo furente di Erebus.
- Eccoti qui… oh, eccoti qui. Quello non è uno sguardo triste per la morte di un proprio commilitone, no, no, no… - disse ondeggiando l’indice di fronte agli occhi del generale.
- Piantala, maledizione, sbottò lui, cosa pretendi che ti dica?! E comunque si, sono furibondo: ma per tutti gli dei, che diavolo si era messo in testa quel dannato gnomo irresponsabile?: fronteggiare un cavaliere in carica da solo? Cosa pensava di ottenere, con un incantesimo minore come quello. Come se tutto quello che gli ho insegnato fosse robaccia gettata ai maiali.  Aveva tracce di armatura demoniaca, ora dimmi tu che senso ha una mossa tanto stupida.  Maledizione. Ho perso tempo. – e mandò giù il terzo bicchiere.  – Un altro, oste! Dannazione, un altro! –
Albina fece spallucce e sorseggiò la bevanda che prediligeva.
- Voglio dire, se devi fermare una cavalcatura poteva, non so, poteva… non so! Oste porca miseria allora?! –
- Quanta fretta di ubriacarsi per un generale che ha avuto una sola vittima in una campagna che ne ha viste migliaia e migliaia - lo schernì ancora.
- Era sotto la mia responsabilità. –
- No, Erebus, non era sotto la tua responsabilità o invece di essere il capo della nostra gilda eri un paparino che accompagnava il proprio poppante alle giostre di Luca Cupa? –
Erebus digrignò i denti.
- Parli bene tu, ma non eri tu che avresti dovuto… -
- Proteggerlo?! – e scoppiò a ridere. Una delle sue risate sadiche e terrificanti. – Stavi per dire questo? Sei già ubriaco o cosa? –
L’evocatore scacciò tutta la questione con un cenno della sinistra, mentre con la destra trangugiò l’ennesimo bicchierino di whisky. Quindi ruttò.
- Scusami. –
- Fa pure, entrando sono stata accolta con ben altro… -
Sorrise.  Albina nonostante tutto riusciva a strappargli un sorriso laddove giurava non vi fosse possibilità alcuna da parte del più divertente dei giullari. 
- Ho fallito, Albina, eccome se l’ho fatto. – biascicò. La testa finalmente gli girava. Un altro paio di bicchieri e giù a terra, fine dei pensieri. – E grazie a me ed al mio fallimento… un ragazzo è morto.- e iniziò a giocherellare col bicchiere nuovamente colmo fino all’orlo, prima di mandarlo giù d’un fiato.
Albina strinse gli occhi concentrandosi. Si era riferito allo gnomo come un ragazzo, non aveva senso, ma gli ricordava di aver già sentito qualcosa del genere

Ho ucciso un ragazzo


molto tempo prima, non rammentava però quando e dove.  Poi, infine, le sovvenne. Passo Mortevento, durante la marcia verso Karazhan.

Che debito mai potrebbe richiedere una simile prova per poter essere sciolto

- Hai ucciso un ragazzo? –
Erebus mandò giù un nuovo carico e si appoggiò con entrambe le mani al bancone, quindi si asciugò il naso rozzamente e fece cenno all’oste il quale, tutt’altro che certo che servirlo ancora fosse la cosa migliore, titubò, ma Albina voleva sapere e così bruciò sul nascere ogni ripensamento dell’esile padrone della locanda di Guardiainverno fissandolo come solo lei era capace e, poco dopo, il bicchiere era nuovamente pieno fino all’orlo.
- Ho ucciso un ragazzo, l’ho ucciso io. Ho ucciso un ragazzo. –
Albina si umettò le labbra, si guardò intorno per assicurarsi di non essere disturbata da nessuno.  Lo gnomo nero era effettivamente al tavolo con Araton, Gengiskhan e Kimmolauz, più in là, il mezz’elfo giocava a freccette con Silvèr, Sceiren e Zaltar.  Ad un altro tavolo Wintate, Hytujaram, Voa, Tenakah e Roredrix discutevano animatamente.  Non vedeva altri Templari Neri, soprattutto non vedeva Tillisha, che sicuramente sarebbe intervenuta, se li avesse visti. 
Si avvicinò al compagno e sussurrò all’orecchio.
- Non hai ucciso nessuno, Erebus, è stato il cavaliere a farlo. –
- No, no, no, no, no… - ripetè come incantato, mentre con la mano tremante stringeva il bicchierino.
- Non sei stato tu. –
- L’ho ucciso io! Non capisci! Era stato assegnato a me! Dovevo istruirlo, non ucciderlo ed invece ora è morto ed è solo colpa mia. –
Capì che non si riferiva a Azazhiel.  Ora ne era certa. 
Ricordò che Leryda lo aveva obbligato, ricattato in qualche modo, a ritrovare il Tomo di Medievh e che non aveva potuto opporsi alla richiesta dell’arcimaga.  Quindi aveva a che fare con l’Occhio Viola.
- L’Occhio Viola ti aveva assegnato il ragazzo? – tentò Albina.
- No, no, no, no, no… - farfugliò Erebus ormai perso nei fumi dell’alcol.
- Leryda? E’ stata lei? – Erebus la fissò con gli occhi lucidi e iniettati di sangue.
- Sì, Leryda. –
- Arcimago – fece eco Albina, imitando anche nel tono della voce l’elfa.
- Dovevo addestrarlo per come richiesto dai dettami dell’Occhio, guardiani della Torre Bianca eretta da Medievh.  Avrei dovuto prepararlo a servire come un soldato dell’Occhio Viola affinchè controllasse le forze oscure celate nella torre e nelle rovine. La nostra missione era comprendere il motivo della recrudescenza delle forze non-morte degli scantinati sud-est, esplorando i cunicoli orientali e tornare a fare rapporto. Io istruttore anziano, lui novizio. – aveva parlato atono, come se stesse rileggendo nella mente un resoconto scritto anni prima.
- Precisamente. Questa era la missione assegnata., proseguì indagatrice Albina, Come hai seguito le direttive? –
Erebus ondeggiò il capo a destra e sinistra. Era sul punto di svenire.
Albina gli afferrò la testa con entrambe le mani e lo fissò dritto negli occhi.  Era necessario che superasse lo choc prima che gli altri lo vedessero, prima che chiunque lo vedesse in quello stato, o gli avrebbero tolto il comando.
- Ho chiesto: come hai seguito le mie direttive? –
Erebus biascicò qualcosa.
- Come, ho chiesto? Rispondi a me! –
- Leryda… -
- Arcimago. –
- Ho… Io… ho condotto le ricerche per come mi hai chiesto.  Dexter era estremamente meticoloso e promettente, appuntava ogni dettaglio: dai movimenti delle creature, alla forza con cui ci attaccavano, tutto quanto, un paladino novizio che avrebbe fatto strada in questo mondo, con o senza l’Occhio Viola, con o senza la mia guida.  Prevedeva le mie indicazioni, spesso si muoveva mentre pensavo cosa ordinargli. Un ottimo elemento. Appuntammo gli spostamenti di spettri di quattro genealogie e affrontammo elementi di ognuna di essi, riportando sul taccuino della missione attacchi, reazioni, resistenza di ciascuno di essi. Abbiamo seguito un paio di anime nel dedalo di cunicoli senza farci vedere e abbiamo riscontrato che, nonostante fossero creature solitarie, si stavano raggruppando. Non avremmo potuto affrontarne una dozzina, forse di più  Si confondevano l’uno nell’altro ed era penombra. Non ero certo del numero.  Così Dexter disse che poteva valutarne meglio il numero avvertendone la carica negativa, ma doveva avvicinarsi. –
- E tu cosa hai fatto? Cosa gli hai ordinato di fare? –
Erebus si umettò le labbra.
- Ero giovane ed inesperto allora… -
- Cosa hai ordinato al ragazzo? – ripetè con maggiore decisione.
- Se quegli spettri lo avessero visto… ci avrebbero raggiunto in fretta, non avremmo avuto modo di sfuggir loro, non avremmo avuto la forza di affrontarli... –
- E quindi cosa hai fatto? –
- … tuttavia, e gli brillarono gli occhi, avere quei numeri sarebbe stato importante per l’Occhio Viola e per la mia carriera all’interno dell’ordine dei Kirin Tor.  –
Albina rimase perplessa, una di quelle rare volte che non poteva contare per quanto erano rare. Non era dall’Erebus che conosceva un simile egoistico ragionamento di opportunità personale.
- Pensai che se avessi avuto i numeri avrei potuto comunicarlii al mio supervisore, ma che non avrei comunicato nulla se fossi morto lì sotto e così… -
- Così cosa facesti? –
- Così dissi a Dexter di fare come riteneva più giusto… ad un paladino, cosa ritenere più giusto! Gli dissi così! – stava piangendo.
- Cosa fece Dexter a quel punto? –
- Lui, io… io mi allontanai, ritornai indietro, ma lo tenevo d’occhio, lo vedevo ancora.  Lui si avvicinò al gruppo di spettri.  Mi mostro il palmo una volta, due volte, tre, quattro… cinque… sei… capito? Sei volte cinque!, e scoppiò in una risata isterica, trenta spettri che lo avvertirono quando lui avvertì il più lontano di loro.  Me ne accorsi prima di lui perché Dexter aveva gli occhi chiusi, voleva concentrarsi di più perché era giusto sapere quel numero! Quante vite avremmo salvato?! –
Albina lasciò la presa e con le labbra strette in una fessura lo fissò.
- Corsi via lungo il cunicolo e lo sentì urlare il nome del Creatore, sicuramente ne avrà sconfitti molti, prima di cadere, ma cadde… non poteva non cadere… cadde perché io l’ho spinto a farlo, cadde perché io l’ho lasciato da solo… e in definitiva cadde, perché io l’ho ucciso. - 
Mandò giù quindi, famelico, vide il calice del sodato seduto poco più a destra e lo afferrò senza troppi complimenti e mandò giù.  Il giovane soldato stava per obiettare, ma poi decise che era meglio non mettersi contro un ubriaco accanto ad una sinistra evocatrice, così scosse il capo, si spostò più in là e ordinò nuovamente da bere.
- E poi? – lo incalzò.
- Poi… mmmm… sono tornato in superficie. Forse, magari avrei potuto portare rinforzi e forse c’era una speranza che magari… -
- Fosse sopravvissuto, non era possibile. Lo sapevi. –
- Lo sapevo. –
- Facesti rapporto? –
- Sì. –
- All’arcimago? –
- Sì. –
- Cosa ti disse? –
Erebus si asciugò le lacrime, inspirò singhiozzando, poi si calmò.  Bevve d’un fiato il vino rosso dal calice e fissando il calice vuoto, riprese:
- Ottimo lavoro mi disse. Capito? Si complimentò con me. Del resto era il mio compito e lo avevo portato a termine, in un modo o nell’altro avevo i dati.  Le chiesi di scendere con altri uomini, mi disse di no. Le chiesi di scendere io stesso, mi disse di no.  Chiesi allora di conferire con l’arcimago Cedric, ma mi negò anche questo. –
- E poi? –
- Era mia la colpa, mia la responsabilità e così le dissi che avrei riferito dell’accaduto direttamente ai suoi genitori. Era il minimo che potessi… io… fare per lui. Dexter era orfano però, mi disse, non lo sapevo. Avevamo condiviso settimane di addestramento e non gli avevo mai chiesto nulla di sé.  Pensai allora di recarmi alla sua confraternita per parlare di lui… al suo… comandante… - lo sprazzo di lucidità che lo aveva raggiunto stava sfumando.
- Quale confraternita? –
- Quale? –
- Quale confraternita? Dexter, a quale confraternita faceva capo? Parlasti con il loro comandante? –
- No, non andai…, riprese a tremare. Albina gli porse il bicchiere mezzo vuoto che aveva sorseggiato. Nonostante ad Erebus non piacesse il sangue freddo lo mandò giù sorso dopo sorso, prendendo fiato alla fine e lasciando cadere il bicchiere dalle dita, prontamente afferrato da Albina.
- Leryda non mi fece andare.  I guuu… i Guardiani, erano i Guardiani. Io volevo, davvero  io volevo parlare con loro!, raccontare del valore del loro gildano, parlare di quanto sia stato valoroso, del valore dimostrato con me, al mio servizio, davvero lo volevo… era valoroso sai? – iniziava ad avvitarsi nei discorsi, presto sarebbe crollato.
- Ma lei non volle? Perché? –
- Perché?! Perché avrebbero potuto dire: E’ l’Occhio Viola responsabile? Ma sono pazzi questi maghi da quattro soldi che assegnano a questo… questo… irresponsabile un nostro paladino? No, non poteva certo accadere questo e poi avrei portato la mia famiglia, come dicesti? Nell’onta! Sì, ecco… onta sui miei vivi, onta sui miei morti per il fallimento. Così mi disse, ti ricordi cosa mi dicesti? D’altro canto, però, non potevo rimanere nell’ordine, era chiaro questo.  Solo tu sapevi dell’accaduto, mentre tutti avrebbero saputo dell’esito della missione… il come fosse morto Dex, quello era un dettaglio e comunque, si muore continuamente, lo sai.  Così scelsi di lasciare l’ordine e fui salutato con orgoglio da Cedric e tutti gli altri… a me?! Ed a Dexter nulla! Capito? Ti sembrò giusto? Me ne andai con onore e in cambio del mio onore e del silenzio... –
- Restasti in debito con lei. – concluse Albina gelida. 
- Debito… chi paga? Paghi tu? Pago io? – ridacchiava Erebus ondeggiando pericolosamente.
L’evocatrice lo afferrò per le spalle per impedirgli di cadere, pagò quanto avevano consumato oltre ad una stanza al piano di sopra, aggiunse una mancia generosa per pagare un di inservienti affinchè “accompagnassero”, senza troppa pubblicità, Erebus nella stanza. Quindi lo raggiunse e si sedette accanto al letto dove lo stanco evocatore era stato adagiato.
- Non si tocca l’abisso solo esplorandone le profondità. – disse fissandolo.  Ripensò al racconto del compagno e decise che lo avrebbe tenuto per sé.  Un segreto in più, uno in meno, per lei non avrebbe fatto differenza, mentre per lui era tutto.  Si chiese come avrebbe reagito se avesse ricordato cosa fosse accaduto quella notte e realizzò poco dopo esserselo chiesto che avrebbe reagito nel peggiore dei modi.  Scelse così per lui, la strada da seguire.
Si alzò e si sedette sul letto, quindi aprì la piccola sacca di daino che teneva, celata alla vista, in una tasca interna alla sua veste e ne estrasse uno dei cristalli violacei al suo interno.  Lanciata un’occhiata fugace alla finestra e assicuratasi che gli scuri fossero chiusi, premette un pollice sulla fronte di Erebus, quindi formulò un sinistro incantesimo.  La sfera si sollevò a mezz’aria, quindi esplose in vapori bluastri che Albina inalò. Quindi staccò il pollice allontanandolo lentamente, allungando una lingua di energia scusa e pulsante che la collegava al compagno.  Albina era pronta, ma esitò. Era la cosa giusta? Scacciò la domanda perché non era suo compito scegliere in base a etica o fede. Da sempre agiva e basta e non poteva vacillare, c’era troppo in gioco. Così formulò la parte conclusiva dell’incantesimo di risucchio e, spalancando gli occhi, assimilò parte dell’energia vitale di Erebus.  L’evocatore sussultò nel letto, per poi crollare in un sonno agitato.
Albina interruppe il flusso quando tu certa di aver assorbito l’energia vitale corrispondente a due ore della sua vita.  Non avrebbe ricordato come era arrivato alla taverna, cosa aveva bevuto, chi aveva incontrato o come fosse finito in quella stanza. Forse avrebbe dimenticato dell’altro, ma era un rischio calcolato e comunque non valutato o ad ogni modo rilevante.  Erebus le serviva, serviva a tutti i Templari Neri.  Si dette questa spiegazione anche se, nel profondo, c’era dell’altro.  Erebus l’aveva accolta nei Templari, si era battuto per lei anche con Ilaria e Selune quando questi non erano sicuri di volerla con loro.  Erebus le aveva dato fiducia e la conosceva da sempre.  Erebus serviva ai lei prima che ai Templari tutti perché Erebus era suo amico.
Albina cupa in volto, a dispetto del colore della sua pelle, guardò la persona che più stimava al mondo sdraiata su quel letto e sapeva che se le parti fossero state invertite, lui non avrebbe scelto come lei e capì di averlo deluso.  Annuì gravemente alla quella semplice constatazione ed alla conseguente decisione che prese.
- Non si tocca l’abisso solo esplorandone le profondità. -  ripetè, questa volta riferendosi a se stessa, quindi, consapevole di non poter tornare indietro e di quanto avrebbe dovuto fare al ritorno a casa, tornò a sedersi sulla sedia di legno accanto al letto ed a vegliare su di lui.

* * *

L’ammiraglio McRonin aveva bisbocciato assieme ai suoi ufficiali fino a poco prima e ora ronfava sonoramente nella sua tenda, ma lui non aveva preso ai festeggiamenti per la vittoria su Kelthuzad. Il Generale Masters sapeva bene che quella non era stata una vittoria, ma un inutile massacro e spreco di risorse. 
Aveva ricevuto il dispaccio poco dopo la vittoria della battaglia, ma non aveva detto nulla all’Ammiraglio come aveva taciuto con Brakgul e Luther, non che quest’ultimo immaginava avrebbe festeggiato in modo consono ai umani ed orchi.  Non avrebbe fatto differenza, mentre occorreva il morale alto per affrontare quella notizia.
Il dispaccio era giunto direttamente dal fronte orientale, inviato da uno dei pochi superstiti alla missione principale, inviato da un soldato semplice. Non era criptato. Non rispondeva ai canoni del caso né tantomeno rispettava la scala gerarchica. A dirla tutta, non aveva neppure idea di come avesse fatto a farglielo pervenire.  Non appena lo aveva ricevuto, notando subito alcuni di questi elementi, fortemente contro qualunque protocollo, aveva compreso che non sarebbe stato quello che sperava e così si era ritirato nei suoi alloggi.  Poche righe per un messaggio semplice. Il Progetto era fallito.  Arthas si era rintanato nella sua cittadella e Bolvar, Dranosh Saurfang e praticamente tutte le migliori truppe del vecchio mondo, spazzate via.  Tutto era perduto. Ora lo sapeva, era scritto lì, nero su bianco.
Masters fissò la città illuminata che festeggiava la fine dell’oppressione di Kelahtuzad e pensò come avrebbero reagito sapendo che presto sarebbero tornati nell’oblio e che nulla era cambiato, in realtà.  Si chiese come avrebbe potuto dire ai migliaia di soldati che lo seguivano che non aveva la minima idea di come affrontare il resto della campagna, anzi no, che non sapeva come affrontare il giorno successivo si perché la campagna militare per cui avevano solcato i mari del nord era finita per sempre.  Rilesse per l’ennesima volta il dispaccio, come sperando di essersi sbagliato, era tutta la sera che lo rileggeva, ma le parole impietose non cambiavano e il significato rimaneva immutato.
Senza volerlo pensò a sua moglie ed ai suoi tre figli che probabilmente non avrebbe mai più rivisto e che presto avrebbero appreso del fallimento della spedizione che comandava.  Realizzò che i due maschi avrebbero dovuto imparare a combattere prima del tempo e che la femmina non probabilmente non avrebbe avuto padre e fratelli al suo sposalizio, quando sarebbe giunto il momento. 
Sapeva che era sbagliato e controproducente pensare a cosa non avrebbe più rivisto, ma preferiva il ricordo della sua famiglia alle tenebre sempre più nere che sentiva lo stavano stringendo in un triste e prolungato abbraccio.
Il generale Masters tornò a fissare la cittadina di Guardiainverno e passandosi una mano sulla bocca, quasi a trattenersi, sussurrò:
- E adesso? –


"Spesso gli incantesimi più semplici nascondono le sorprese più grandi" - Sceiren